Spazi e ritmi
di Domenico Guzzi, 2006
Ad osservare, analizzandole, le opere recenti (tutte del 2006) di Mariantonietta Sulcanese si crede che non ci si allontanerebbe dal vero asserendo che l’artista dia visione alle ragioni complesse di un immaginario, a render concreto il quale essenzialmente concorrono “emozionalità” e “razionalità”: il pensiero stempera -ma, ciò facendo, in pari tempo la arricchisce- l’intuizione emotiva; “emozionalità” e “razionalità” da considerare fondamentalmente in chiave materica e di corrispondenze geometrico-spaziali.
Non sfugge, ad esempio ed infatti, come in tali dipinti sempre esista una corrispondenza di forme e di “luoghi” sinteticamente “narranti” i quali alimentano, pur dove le soluzioni parrebbero poterne fare a meno, il necessario equilibrio dell’immagine. Ed è, tra gli altri, un dipinto come Segno di luce che obliquamente testimonia, oltretutto, una sorta di vocazione alla storia.
Allo stesso modo, la Sulcanese intuisce come l’opera -per gran parte, le sue, concepite in rastremazione cromatica: grigi, neri, ocra, bianchi- possa e debba avere, proprio attraverso linee che le danno ritmo, un destino di interna dinamica, al di là di stasi apparenti. Ecco, allora, la contiguità di semiellissi ad attraversare l’intera ampiezza della tela e, su quelle, condotte con una materia, sì, corposa ma non al punto da prefigurare, come nei fondi, concrezioni e grumi; su quelle, si diceva, interventi di semiellissi ulteriori, non solo ad interrompere una traiettoria ma ad un amplificare, di converso, una ritmica ed una problematicità.
Parimenti -annotazione che attesta anch’essa una meditazione storica, benché trasgressiva- all’interno di quelle forme “sciarpate” -un rialzo luminoso ne sottolinea la realtà di “corpo”- l’artista si sofferma in un’ulteriore ricerca, formale e cromatica. Si allude a soluzioni iconiche pressoché ogivali (come fossero meditazione che può giungere sino a composizioni “cosmatesche”), ocra e nere, su fondo chiaro. E, qui, si sollecita una considerazione in qualche maniera prossima, ed attinente, alla “priorità” dei piani compositivi. Giacché la pittrice sembrerebbe, inconsciamente o meno poco importa, compiacere cert’ambiguità dell’occhio sollecitando l’interrogativo se sia forma “primaria” quella che sembrerebbe esser tale, o, piuttosto, non debba esser considerata tale quella che appare “secondaria”, e a ritaglio. Un ritmo ulteriore.
Com’è ricerca di ritmo -quasi una “musicalità”- l’accennata analisi materica. Per giungere alla quale la Sulcanese non esita a far ricorso a materiali “diversi”, così ipotizzando una resa in superficie e a rilievi, i quali ultimi finiscono per suscitare, benché minime, oggettive incidenze umbratili e luminose. Non di meno approdando, sul piano visivo, ad una sorta di “cosmogonia” per la quale parrebbero riconoscersi, a distanze abissali, i confini di terre e continenti. Ed anche ciò è ritmo.
Ritmo che trova altro motivo nel riscontro, proprio, d’una sostanziale diversità materica tra “fondi” ed elementi di più esplicita composizione. Se ci si approssimasse alle opere, infatti, sarebbe dato notare come l’artista dia significativa importanza proprio alla dissimile concezione della materia. Giacché gli spessori, di cui s’è fatto accenno, vivono d’una vita autonoma, concependosi in maniera per nulla “omogenea”. Vi sono luoghi, infatti, in cui si nota chiaramente una concreta ed avvertibile “porosità”, per la quale si genera un’infinità di “alti” e di “bassi” (luci ed ombre, come detto); ed altri luoghi, viceversa, in cui le concrezioni appaiono, e sono, maggiormente distese nello spazio. Ed anche ciò è ritmo. Così come, e per quanto detto, è evidente che l’artista non trovi unicamente motivi nelle sole ipotesi ed analisi pittoriche, meglio ponendosi in ottica di ricerca per certi versi “tridimensionale”.
Alla stessa maniera, l’idea di “dittico” –Poesia– di per sé nuovamente pone in evidenza due problemi di cui s’è fatto accenno. Uno, riguardante il richiamo alla storia. E se può, questo, apparire “eterodosso” per accezioni “narrative” (ma ognuno è figlio del suo tempo); d’altro canto -l’altro- esso ben collima, e si coniuga, con l’evocata idea di ritmo. Si tratta, allora e in concreto, di due luoghi pittorici la cui contiguità spaziale sottolinea un’interruzione e, in pari tempo, una ripresa per continuità narrativo-formale. Né si ribadisce, a tal proposito, come cert’innervatura del visivo nuovamente stia attorno a richiami morfologicamente geometrici, tali da richiamare sulla tela l’esistenza d’una vera e propria cadenza sintattica. Si constata, infatti, come la centralità dell’immagine torni a concepirsi per le semiellissi di forme sopra e sottostanti, in una continuità di “segno” che supera la stessa concezione dittica del dipinto. Né sfugge come altrettanto siano, in fondo, di esatto richiamo le forme “spioventi” del registro superiore le quali generano, ai limiti estremi delle tele, esemplari “triangolazioni”.
A tutto questo apparente -e pur sostanziale- “ordine” (ecco in qual modo la razionalità stempera l’emozione) l’artista oppone, a un certo punto, un’annotazione di equilibrio “diverso” e “gestuale”. Sono taluni significanti segni in quella centralità che, a loro volta, appaiono esser richiamati da tal’altri, sotto forma di colatura di colore, nel luogo superiore dell’immagine. Ciò parrebbe testimoniare -non fossero, poi, ricompresi nella ritmica complessiva- un’infrazione agli e degli equilibri. Gestualità segnica che è ugualmente presente, e con pari valore, in altro dittico -concettualmente contiguo-: Poesia allo specchio.
In questo, sin dal titolo (e nella logica d’una materia ora rilevata, ora resa “preziosa” per passaggi e velature), si annuncia e comprende la soluzione di continuità formale, e comunque “a specchio”, dell’esito. “Specchio” tra l’una e l’altra tela, non già, come altrove, all’interno d’una stessa. Ed è chiaro che è evidenza la quale concettualmente amplifica l’argomentazione dell’opera, pur se dovrà ammettersi che non ne attenua il sedimentato “criptismo”. Criptismo che la Sulcanese appare, piuttosto, idealmente accentuare con e per l’utilizzo del termine “poesia”. Facendo, è chiaro e nonostante una sintassi di evidenti e reciproci riferimenti, non già allusione ad un “classicismo” poetico, ma a quelle attualissime “conclusioni” che fondano sé stesse sulla sperimentazione del linguaggio. Come a dire, riportando tutto in termini di immagine, che non è il “significato”, quanto la maniera di raggiungerlo ed il “significante”, a doversi prendere in esame. Significante che torna, nello specifico del dipinto, a rendersi in chiave di accento e verifica delle interne possibilità e dichiaratività del processo che conduce all’esito.
Ciò testimonia come l’artista non si ponga acriticamente innanzi alle proprie pulsioni. Equilibratamente queste vengono tradotte in termini visivi, ponendo sullo stesso piano, se così può dirsi, “teoria” e “pratica”. Ed è un’opera quale Nello spazio o nel tempo, ove davvero si riassumono tutti gli “input” inventivi della pittrice. Di qui, giungendo all’accenno, nell’unità dello spazio operativo, all’idea stessa di “dittico”. Ci si avvedrà, infatti, come la più parte di quelle forme corrisponda ad altre pressoché identiche, e al contrario. E come lo spazio, ancora, si strutturi per un’avvertibile scansione “verticale”, in ribasso cromatico, che divide l’opera in registri. Nel cui “ordine”, nuovamente a specchio, e nella costanza d’una materia molto elaborata, ed evocando una possibile “insofferenza”, altri segni e gesti che, tuttavia, attenuano per nulla la coniugazione a suo modo “pacata” della visione.
Dovrà, qui giunti, asserirsi come l’attuale ricerca della Sulcanese tragga origine, evolvendola, da alcuni suoi dipinti di anni precedenti (ci si riferisce, ad esempio, a quanti del ciclo “Luoghi comuni”), nei quali poteva, tuttavia, cogliersi una differente accentazione tanto cromatica quanto formale. E tuttavia già in essi -come anche in altri ancor precedenti: Morfogenesi-evoluzione– poteva cogliersi una necessità di equilibrio; la tensione ad una sperimentazione linguistica; la tensione, ancora, a render per “simbolo” la spazialità d’una verità pensata.