Dal grigio all’immaginario dei colori
di Gérard-Georges Lemaire
Se bianco e il nero hanno giocato un ruolo determinante nella storia dell’arte moderna (basti pensare al Quadro bianco su fondo bianco di Kasimir Malevitch e al Cerchio nero su fondo nero di Alexandre Rodtchenko e sulla polemica fra questi due grandi artisti russi), ruolo che non si è mai smentito fino a oggi (si pensi a Ad Reinhardt, Lucio Fontana, Alberto Burri, Robert Ryman, Piero Manzoni, Piero Manzoni, Jannis Kounelis, Beatriz Zamora, Jean Degottex, Pierre Soulages, Robert Groborne, Gianni Burattoni e via dicendo), il grigio ha svolto un ruolo minore, se non inesistente. È come se questo colore, che ha avuto una sua dignità nella pittura antica – nella quale svolgeva però solo un ruolo tecnico essenziale e affatto simbolico – non avesse quasi più una sua realtà. È vero che Fernand Léger ha utilizzato un grigio cupo o brillante per i cannoni e Picasso l’ha utilizzato nelle tele cubiste dei primi anni del 1910, ma la sua presenza resta marginale e in ogni caso fuori dai grandi dibattiti teorici sui colori. Non ha più avuto un vero spazio nelle aspre discussioni sulla monocromia in seno alle avanguardie storiche. È stato necessario attendere le opere di Agnes Martin (come Greystone, 1963), di Françoise Janicot, di Pino Pinelli e di Bernard Ollier nel campo dell’astrattismo e quelle di Gerhard Richter perché il grigio trovasse infine una risonanza profonda e uno status filosofico nell’arte dopo la Seconda guerra mondiale e, soprattutto, diventasse l’elemento principale di una speculazione estetica.
Quando un grande artista scommette tutto sul grigio, come ha fatto Ollier con la mina di piombo, pone la sua ricerca all’insegna di una tinta che non genera a priori sentimenti potenti, ma forza lo spettatore a considerarla non più per il suo potere di seduzione, ma per il suo valore interiore.
Senza dubbio, Mariantonietta Sulcanese non ha posto il grigio al centro della sua meditazione e della sua pratica pittorica. Ne ha fatto però un cardine. La grande tela orizzontale intitolata Nel segno del grigio (2007) lo prova in modo spettacolare e può essere considerata un’opera manifesto. Senza dubbio è perché la pittrice ha usato molto l’alternanza e il confronto tra il nero e il bianco, come si può constatare in Tre piccoli versi di luce del 2008 (mi riferisco al pannello centrale), o ancora in La melodia del tempo – nuova nota dello stesso anno, perché il grigio, che è il frutto della loro unione, prende un posto sempre più pervasivo nella sua ricerca plastica.
In realtà, nel suo caso il grigio è onnipresente in un gran numero di composizioni. E in modo quasi opposto in base al genere di pittura che ci propone, poiché l’autrice lavora su più registri. Fermiamoci un istante davanti ad Angelo metropolitano – evoluzione (2007) : là, niente più monocromia né effetto materico: è uno zampillo lirico, un’esplosione stellare, un big bang estetico su uno sfondo bluastro e vagamente violetto, in cui si dispiegano sfumature di ogni sorta di grigio formando una nube in espansione, una nube di pigmenti carica di un’elettricità blu e bianca che sembra dover ricoprire l’intera superficie della tela. È una visione cosmica in movimento. Lo stesso grigio si ritrova in un’altra configurazione che è quella del trittico Tre appunti di luce (2008). Qui, una pioggia di colori, lenta e solenne, stilla attraverso una vasta zona grigiastra nei pannelli di sinistra e di destra. Il pannello centrale, al contrario, è di un bruno mescolato al grigio. Il grigio, attraversato da queste lunghe staffilate di giallo, bianco, rosso e azzurro influisce sul carattere del pannello principale, che tende all’ocra. E ciò che è vero per questa particolare opera lo è per altre caratterizzate da una configurazione e da una sensibilità leggermente diverse. Basta osservare Come una preghiera (2008) o Ottava memoria di luce (2008).
Il grigio è dunque un colore che, nelle composizioni recenti, ha una funzione fondamentale per la comprensione del percorso dell’artista: ella introduce una clausola sconcertante negli assetti scenografici che instaura nelle sue creazioni. Queste creazioni implicano allo stesso tempo la comparsa di un sentimento intenso, un sentimento che non è propriamente spleen, ma è nondimeno improntato a una dolce e tenera melanconia. Man mano che l’artista progredisce in questa relazione intensa e a volte conflittuale tra i dipinti monocromatici e quelli di ispirazione «lirica» – un confronto che è l’essenza stessa della sua opera – ci si rende conto che questi ultimi tendono spesso al grigio. Questo grigio cangiante appare come l’espressione più forte del suo desiderio di trovare un termine intermedio tra le tonalità forti, talvolta molto spiccate, che sottintendono emozioni forti e sensuali. Ma bisogna anche vedervi uno spostamento della sua ricerca artistica. In effetti, queste tele lasciano presagire una tendenza al superamento di linguaggi in apparenza inconciliabili. Da una parte, l’artista si orienta sempre più in direzione di una monocromia pura, caratterizzata da un’insistenza sulla materialità della superficie pittorica che si rivela sempre più densa, rugosa e irregolare e mette in gioco sensazioni tattili. Così facendo, Mariantonietta Sulcanese si allontana dalla maggior parte delle dottrine precedenti sul colore alleggerito da ogni forma e costruzione architettonica, che si fonda su un rifiuto della materia e dunque di una terza dimensione. Il rilievo diventa un mezzo per rendere il pigmento colorato allo stesso tempo minerale e vivente, fatto che costituisce un paradosso solo in apparenza: è prima di tutto un artificio, e poi non sono che impressioni che vuol far provare all’occhio e allo spirito, simultanee e di natura molteplice. Tanto più che questa superficie, ogni volta diversa, è modellata dal movimento del pennello, che vi disegna delle linee, spesso delle curve. A volte la materia si screpola e si fende, si incava visibilmente o s’incurva in modo impercettibile: è ciò che rivela un polittico come Quattro versi di luce (2008). Dalla materia «vissuta» nella carne, percepita dal sensi messi in guardia, in una parte del suo lavoro l’artista passa alla sua rappresentazione cosmica. Non è più ciò che viene percepito e provato per mezzo degli istinti e delle emozioni che rimandano all’esperienza sensoriale – quella della vista, evidentemente, ma anche quella del tatto (l’affioramento della materia, lungi dall’essere indifferente, invita irresistibilmente a tendere la mano per farvi scorrere le dita e accarezzare il palmo), come se il dipinto fosse stato concepito per un cieco – che si afferma come elemento fondamentale, bensì i complessi meccanismi degli effetti e delle conseguenze delle percezioni. L’orchestrazione di questo gioco allo stesso tempo fisico e cerebrale chiama in causa in primo luogo il corpo, poiché esige, per entrare nell’opera senza sforzo, l’esercizio delle facoltà sensoriali senza il conforto della coscienza, della memoria e dell’intelligenza, senza il soccorso della ragione. Necessita però anche dei meccanismi più oscuri, intimamente legati all’avventura dell’arte e alla sua manifestazione, che implicano il corpo e l’astrazione mentale. E alla fine dei conti, è lo spirito che intreccia questo rapporto ai sensi, rendendo queste impressioni a fior di pelle così presenti e pregnanti. La combinazione di zone colorate spesso autonome genera tensioni tonali che si traducono in accordi o dissonanze, melodie o, più raramente, effetti stridenti. Le terre ocra, d’un arancione terrestre piuttosto che di un giallo polveroso, d’un rosso carminio piuttosto che del porpora della tunica di Cristo nelle pale di inizio Rinascimento, questi blu e, ovviamente, questi bianchi e neri senza compromesso e dunque privi di asprezza, formano risonanze di fattura musicale. Anche l’udito viene interpellato. Tutti questi accordi e rotture d’accordo tendono ad armonie plastiche, e dunque sonore in senso figurato. Le armonie sono continuamente perturbate dall’entrata in scena di elementi più o meno contrastanti oppure ostili. Ma quel che la nostra pittrice cerca non è la perfezione, che sarebbe la conclusione di una costruzione sapiente e disincarnata delle giustapposizioni cromatiche. In ogni caso, non quella perfezione fondata solo sulla conoscenza dei legami che uniscono e dividono i primari e i complementari, che organizza con meticolosità e parsimonia le complicità evidenti tra le più piccole sfumature dello spettro. La direzione in cui si orienta è più sofisticata e necessariamente più arrischiata: essa ha la ferma intenzione di circoscrivere un teatro strano e affascinante dell’arte pittorica, in cui da dipinto a dipinto si svolgono più scene su piani ambivalenti, dove il colore non agisce mai per suo conto, ma in funzione di altri colori che gli sono contrapposti.
Esistono numerose tele di Mariantonietta Sulcanese in cui la rappresentazione dell’universo celeste si propone come una cosmologia raffigurata come una deflagrazione, un mondo che sembra nascere in un temporale che libera linee come lampi, striature bianche, nubi in espansione. O altrimenti sono piogge di colore che attraversano lo spazio come in L’incantesimo del giallo (2008) : in quest’opera è il rosso a dominare, con tracce di nero, grigio e bande irregolari di gialli. In Il canto delle sirene, dello stesso anno, le bande verticali sono più regolari e serrate – molto bianco, nero, giallo, blu e rosso di intensità diversa. La tela suggerisce un ruscellamento, in cui dominano ancora una volta il grigio, il bianco e il nero. In Frammento, le bande longilinee sono a volte sottili, a volte più larghe. Il dipinto è un pianto metafisico, in cui spuntano piccole forme incongrue simili a germogli o minuscole infiorescenze, che sono come una firma.
Col tempo, l’arte di Mariantonietta Sulcanese si purifica, ma non perde ciò di cui ha fatto la sua verità: un continuo passaggio dall’ambizioso desiderio di dire ciò che nasconde in sé stessa col solo espediente del colore a quello, altrettanto elevato, di sedurre e ammaliare con arrangiamenti di forme che rappresentano il suo microcosmo, con la sua dinamicità, i suoi dolori e i suoi timori. Questa alternanza è la regola di base del suo percorso artistico ed ella ha il merito di fabbricare un mondo di artifici lineari e cromatici che non ha equivalenti.
Le opere più recenti marcano una svolta decisiva, che non è una rottura nel suo percorso ma piuttosto un brusco allargamento dei confini della ricerca. Questo si traduce nell’introduzione inaspettata di un volume che si potrebbe definire in qualche modo scultoreo. In effetti queste opere in tre dimensioni sono la proiezione di un disegno che appare in molte sue tele. Le tele rappresentano sempre un cuore, stilizzato all’estremo, che può far pensare al divano a forma di labbra truccate di Man Ray, soprattutto nel caso di Il cuore dei santi (A) : su una tela monocromatica rossa, in cui le irregolarità della superficie dipinta sono palpabili, una forma oblunga, anch’essa rossa, si staglia nella parte superiore del dipinto. Al suolo giace un cuore molto «astratto», irreale – l’idea di un cuore umano che, per contrappasso, dà un significato particolare alla forma inscritta nella superficie che gli fa eco. Questo cuore è in realtà il leitmotiv dell’intero ciclo Il cuore dei santi. Richiama immediatamente il modo di raffigurare il cuore di Cristo nell’iconografia religiosa classica, in composizioni in cui si svela una sagoma umana più o meno definita, o in questa magnifica opera come incorniciata su ogni lato da larghe bande, ognuna diversa dall’altra, di un nero diverso, di intensità minore, quasi un grigio saturato. Qui una moltitudine di cuori tracciati in modo schematico, tutti neri, di qualità diversa rispetto allo sfondo tranne uno, eseguito in una tinta molto più chiara. In una tela verticale, interamente occupata da due tipi di rosso, questa idea di cuore dà l’impressione di essere collegata alla parte inferiore del piano, dello stesso colore, da un cordone ombelicale o una colata di sangue, che, virtualmente, dovrebbe riempire la superficie del dipinto. In un polittico composto da dieci tele rettangolari di uguali dimensioni, cinque tele sono variazioni monocromatiche rosse (nella gamma degli alti) e in ognuna delle altre cinque, quelle della gamma dei bassi, è presente un cuore grigio, disposto ogni volta in posizione diversa. Quando ci si trova davanti a Sentieri di luce, si vede un cuore allungato e rosa, attraversato da sottili linee gialle, mentre sullo sfondo nero piccole forme (nessuna somigliante a quella che segue) galleggiano nello spazio oscuro.
Due sono le riflessioni che ci si impongono. La prima è che il ciclo è una meditazione sul rosso e sul nero (in particolare in quest’opera più che strana, che l’artista ha chiamato In omnia sæcula sæculorum, con questa fioritura indicibile emergente dalle tenebre profonde, costellate di cuori neri in un fondo cromatico che unisce colori bruni scuri che giocano armonie gravi col nero). Nel segno del rosso, una tela monocromatica dalla superficie tormentata, che fa nascere più tipi di rosso in funzione dei movimenti e degli impulsi della mano, con tutti i suoi sentimenti contrastanti e la traccia di gesti nervosi e impulsivi e di altri più costruiti, dà il la ad una serie di variazioni molto libere su un tema preciso, quello dei tre colori chiave del Medio Evo con il bianco e il nero. La seconda riflessione concerne questo cuore, che è come uno stemma araldico che la sua autrice ha inventato donandogli un aspetto e una fattura esclusivi. Ma Mariantonetta Sulcanese non si è lasciata imprigionare in un sistema formale o simbolico che poggerebbe su declinazioni infinite a partire da un numero ridotto di scelte cromatiche ed emblematiche. È ciò che prova clamorosamente Dalla luce della materia alla materia della luce : il dipinto è di un grigio chiaro e bluastro, attraversato orizzontalmente da una fenditura nera dal tracciato diseguale, mentre il cuore «scolpito» riposa a terra formando un contrappunto sorprendente con la tela. I titoli della maggior parte di queste opere giocano un ruolo determinante nella creazione di questi ultimi mesi: l’allusione teologica è evidente. Ma è impossibile distinguere se si ha a che fare con la fede cattolica oppure con la storia dell’arte antica, in cui i soggetti religiosi erano la regola giacché gli artisti eseguivano commissioni per chiese, monasteri, Scuole, come nel caso di Venezia. Questa ambiguità – almeno è ciò che credo, a rischio di sbagliare – è coltivata con cura. L’artista fa riferimento al valore simbolico dei colori dei dipinti di una volta, quelli del Cristo, della Vergine, degli apostoli esprimendo una dimensione teologica precisa? O forse ritrova, nel suo cammino interiore, reminiscenze di predelle, pale d’altare o immagini sacre che l’hanno profondamente impressionata? È là che stanno la bellezza e la forza del suo percorso, che ci lascia a interrogarci senza fine su una pratica plastica legata al linguaggio dei grandi iniziatori delle avanguardie e dei loro eredi attuali, e che affonda le sue radici sensibili e intellettuali nei capolavori dei maestri di una volta? Se così fosse, l’artista agirebbe senza un riferimento preciso e immediatamente riconoscibile, ma anche senza giustificazioni ostentate, puramente e semplicemente manipolando delle icone, come quella del Sacro Cuore di Gesù. E noi ci sentiamo coinvolti in questa trappola speculare perché siamo, volenti o nolenti, depositari di questa grande tradizione in cui la più alta elevazione spirituale si è radicata nelle più orrende atrocità e nella più sfrontata corruzione dell’anima e della carne. La sua opera non è corrotta da impurità, ma ella non ricerca il misticismo. È invece in uno sfasamento perpetuo – ed è questo il motivo del suo sapore – rispetto alle avventure incrociate della Chiesa e dell’arte.
Mont-de-Marsan, giugno 2009.